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La capacità umana di un comportamento orientato verso il gruppo è rafforzata da un’altra caratteristica di molti animali sociali: il rifiuto degli estranei. La maggior parte delle api, delle vespe e delle formiche, ad esempio, ha un odore particolare, specifico del proprio alveare o nido, che permette agli altri membri del gruppo di identificarla. Gli estranei, o i residenti che si portano appresso odori estranei, vengono di solito scacciati o uccisi. I ratti vivono in branchi organizzati i cui membri si identificano e tollerano a vicenda. Guai al ratto estraneo che viene introdotto in un branco che vive in armonia. Le grandi scimmie che vivono al suolo (macachi e babbuini), il cui comportamento in certi casi fa pensare al nostro di alcuni milioni di anni fa, vivono in gruppi rigidamente organizzati dove gli estra-nei vengono tollerati solo raramente mentre l’aggressione tra i gruppi è frequente. Ancora una volta, si tratta di un modello che ha senso dal punto di vista dell’educazione biologica, perché i membri di questi gruppi relativamente chiusi sono spesso anche parenti genetici.
In molti popoli tribali, il termine per “essere umano” è il nome della tribù: perciò, i membri di un’altra tribù non sono per definizione umani. Non è un caso che in molte tribù di cacciatori di teste dell’Amazzonia l’uccisione di un compagno di tribù sia un omicidio, mentre quella di un estraneo è “caccia”. Definendo veramente umani solo gli amici e paren-ti, i membri del gruppo sono liberi di trattare quelli di un gruppo esterno in maniere che non sarebbero socialmente accettabili verso i parenti genetici.
In generale l’uccisione di un membro della propria tribù è proibita, mentre magari viene incoraggiata l’uccisione dei membri di un’altra tribù. Dopo tutto, un membro di una tribù estranea non è un essere umano. Non è un semplice sofisma, ma un dato fonda-mentale nella vita di molta gente, che la dice lunga su una visione del mondo nella quale è riconoscibile l’intervento spesso spiacevole dell’evoluzione. La selezione per parentela è attinente a questa doppia morale dell’omicidio, perché un nemico caduto ha meno proba-bilità di essere portatore degli stessi geni di chi lo uccide.
Proponendo l’idea che la xenofobia abbia alla base una tendenza biologica, non inten-diamo con questo dire che in tutti gli individui o i gruppi questo tratto si esprima al cento per cento: ricordiamoci che i geni delimitano una gamma di espressione possibile, più che determinare rigidamente una precisa caratteristica. Questa apparente ambiguità vale par-ticolarmente per i tratti comportamentali che possono essere facilmente modificati dalla cultura. Sia chiaro, però, nella misura in cui esistono tendenze xenofobe, esse generano una preoccupante sensibilità a una propaganda che presenti gli stranieri come criminali, immorali, non del tutto umani, e certamente sleali.
La tendenza umana a formare gruppi di affiliati escludendo gli estranei si riflette in molti aspetti della nostra vita, e agisce nelle culture come tra di esse. Comincia con le “com-pagnie” che formano i bambini, e continua con i club esclusivi, le confraternite, i gruppi femminili, i sindacati locali, le associazioni assistenziali e i partiti politici. Oltre a queste affiliazioni puramente culturali, che si formano soprattutto per libera scelta e con uno sfor-zo personale, esistono entità culturali delle quali si entra a far parte dalla nascita, e rispetto alle quali è raro, anche se possibile, operare una scelta. La religione, il gruppo etnico e la nazionalità ne sono ottimi esempi. Oltre a ciò, le vistose differenze fisiche su base genetica forniscono un utile spunto di riferimento per le tendenze discriminatorie dell’uomo. Un caso esemplare sono le differenze razziali del colore della pelle. E quando queste differenze non esistono, siamo noi a fabbricarle con l’abbigliamento, il linguaggio, l’accento, le parole d’ordine segrete, il segno zodiacale, o altre associazioni totemiche.
Gli esseri umani sono chiaramente portati a escludere quegli individui che sono vi-sibilmente diversi da loro in qualunque senso. Questo comportamento nella sua forma pura relativamente primitiva è probabilmente biologicamente adattivo perché nella mag-gior parte degli animali, la malattia è una delle cause principali di mortalità, forse più im-portante di quanto ci si renda conto solitamente. Dato che molte malattie possono venire trasmesse da individui infetti, è vantaggioso riuscire a impedire in qualche modo che gli animali malati entrino in contatto con quelli sani. Così, in molte società animali spesso gli individui malati o sfigurati vengono perseguitati ed esclusi dal gruppo. Di norma, chi è diverso viene messo al bando.
Purtroppo, negli esseri umani la “diversità” è molto più spesso una funzione delle oc-casioni, delle idee e delle inclinazioni (cioè della cultura) che una condizione biologica. I solitari, gli eccentrici, gli uomini con capelli e barba lunghi, quelli che vanno in giro a piedi nudi, le donne senza reggiseno, gli “stravaganti” di ogni tipo suscitano l’ostilità della socie-tà. Solo difendendo a spada tratta la tolleranza, perché riconosciamo che in ultima analisi la società funziona meglio mantenendo la libertà e la diversità, ci salveremo dall’omogei-nizzazione soffocante che risulterebbe se non si ponesse freno a questa xenofobia d’origine evolutiva.
Spinti dall’evoluzione, tendiamo perciò a difendere e proteggere la nostra prole, fa-vorire i nostri parenti, identificarci col gruppo, reagire alla psicologia della folla con una propensione alla violenza e una diffidenza verso gli esterni e tutti quelli che sono diversi. L’interazione tra il nostro retaggio biologico e quello culturale ci lascia irretire in un com-plesso mosaico di bello e bestiale, di problemi e possibilità.